
L’artista
Nato a Napoli nel 1975, il suo percorso espressivo inizia all’istituto d’Arte Boccioni, dove si diploma per intraprendere poi il lavoro di grafico e designer.
In lui l’elemento umano e quello materico si uniscono nel suo sentire fino ad arrivare a una illuminazione: trasformare i tappi di metallo, in opere d’arte. Non solo riciclare, ma ripensare, riplasmare, riconcepire.
Nasce nel 2012 la sua prima opera, concepita utilizzando come tela i suoi primi 2200 tappi a corona. Lasciandosi ispirare ed elaborando quello che lo circonda, la sua produzione cresce fino a comprendere ritratti, astratti, fenomeni sociali, marche e stili di vita che, attraverso la manipolazione dei tappi di metallo, trasforma in sperimentazioni, tele e opere ambientali.
Nel 2013, anno della sua prima personale, dà vita a Tappost, l’associazione associazione senza fini di lucro per la creatività, il rispetto dell’ambiente, il recupero sociale. Nel 2015 realizza a Barcellona la sua prima personale europea.
Nello stesso anno, durante la biennale di Palermo, davanti a una delle sue opere Vittorio Sgarbi lo definisce “genio”.
Dall’Italia al sud-est asiatico, da Parigi a Tolosa, da Londra a Mosca, i suoi quadri sono oggi alle pareti di alcuni dei più famosi personaggi dell’arte, della politica, dello spettacolo e della moda.
Il suo è oggi un linguaggio moderno che dà vita a opere uniche in cui il tappo a corona è al tempo stesso cellula elementare e scintilla creativa. Atomo attorno al quale, rigorosamente a mano, costruisce e decostruisce, plasma forgia e trasforma. Fino a far rinascere ciò che era destinato a non essere più.
L’etica e l’estetica di Luigi Masecchia
“Non ho mai provato – ha sostenuto Tony Cragg – interesse per i rifiuti, è un termine generico ed è talmente irresponsabile usarlo. Quando smetteremo di impiegarlo, ci renderemo conto del numero di differenti materiali da cui è formato e quindi tratteremo la questione in maniera diversa. È vero, è solo un esempio, un esempio veloce di come le cose possano funzionare, perché si può anche vedere questa roba come rifiuti sulla spiaggia oppure si può iniziare a pensarci sopra. Ogni elemento è magnifico, oppure brutto o qualsiasi altra cosa. Dipende dalla nostragamma dei criteri”.
L’interesse da parte degli artisti per materiali di scarto o frammenti di oggetti è quasi una costante nel corso del Novecento. Sebbene nei primi decenni del secolo non si può ancora parlare di un vero e proprio recupero, i “corpi estranei” inseriti nei collages cubisti di Braque e Picasso hanno, senza dubbio, contribuito alla messa a punto di una metodologia artistica in grado di abbandonare lo spazio/quadro per aprirsi alla vita reale. Circa mezzo secolo dopo, con gli anni Sessanta, la rapida ascesa della società dei consumi e del capitalismo ad ogni costo, gli esponenti del movimento francese NouveauRéalisme si fanno “sacerdoti” di una vera e propria estetica dello scarto: Arman con LesPoubelles, mucchi di rifiuti situati in contenitori trasparenti, Spoerri con le sue tavole imbandite a parete piene di piatti sporchi e fiori rinsecchiti, César con sculture di automobili compresse possono considerarsi i capisaldi di una siffatta ricerca estetica. Artisti, questi, che secondo Pierre Restany “condividevano una pratica quasi alchemica, che trasformava in oro luminescente il piombo scuro della vita quotidiana”.
E ancora, nel corso di questo mitico decennio, la Junk Art di Richard Stankiewicz, Mark di Suvero, Louise Nevelson, John Chamberlain e Lucas Samaras, ha realizzato opere monumentali composte da rottami e ferraglie, sculture in movimento, macchinari grotteschi e primitivi, carcasse industriali e macerie tecnologiche manipolate e riassemblate tra loro. L’arte contemporanea, dunque, si fa, ancora con più forza rispetto ai decenni precedenti, strumento di analisi della società moderna, di racconto e denuncia di una condizione sociale legata al consumo sfrenato e alla poca considerazione dell’effetto che esso può avere sulla natura e sull’uomo stesso. Il decennio Sessanta ha, così, aperto la strada ad una nuova era geologica definita, nel corso degli anni Ottanta, dal biologo Eugene F. Stoermer, antropocene: un’era geologica in cui la Terra è fortemente segnata dall’attività dell’uomo che non si cura delle conseguenze della stessa.Come nella città di Leonia, raccontata da Italo Calvino, gli abitanti della Terra guardano dall’altra parte, fingendo di non sapere di essere intrappolati da confini fatti di rifiuti e montagne di immondizia da essi stessi generati.
Ancora oggi, numerosi artisti, scelgono di colmare, con la loro ricerca, quella mancanza di senso civico provando a far virare un contesto sociale sempre più legato alla filosofia dell’“usa e getta”, verso una società in grado di cogliere il bello anche nello scarto e nell’abbandono. Del resto, il sociologo anglo-polacco ZygmuntBauman, nel suo saggio dall’emblematico titolo Vite di scarto, ha scritto che “ai fini dell’esplorazione del banale, del quotidiano, dell’ordinario, cioè di quel ‘rumore di fondo’ che sottolinea la nostra esistenza, niente è indegno di essere ammesso nel recinto sacro dell’opera, dove gli oggetti sono inseriti, incollati, plastificati, occultati, evidenziati” e ancora: “nessun oggetto è ‘rifiuto’ per le sue qualità intrinseche e nessun oggetto può diventare rifiuto solo attraverso la sua logica interna. Muovendo da simili premesse, la ricerca di Luigi Masecchia recupera residui ‘scelti’ della società dei consumi per sublimarli attraverso la creazione di opere d’arte.
I suoi tappi vengono nobilitati attraverso la sua personale interpretazione creativa che punta a sovvertirne la storia passata e ad attribuire loro nuovi e più sorprendenti significati. In tal modo, ad essi viene attribuita una nuova funzione ed un nuovo linguaggio espressivo destinato, questa volta, a durare nel tempo. Finalità ultima di una siffatta operazione estetica è quella di attribuire uno scopo didattico e pedagogico all’espressione artistica dal momento che, come ha sostenuto JanMukařovský, “il compito fondamentale dell’arte è guidare, rinnovare il rapporto tra l’uomo e la realtà come oggetto del comportamento umano”. I tappi si fanno, in tal modo, metonimia di una grave condizione sociale, la parte di un tutto che, come una spada di Damocle, pende sulla testa dell’uomo con tutto il suo peso e con tutte le sue conseguenze. Anche lo scarto, dunque, può essere illuminante e Masecchia ne raschia l’epidermide mettendo in scena lo spirito del tempo e la sua weltanschauung.Ed è proprio nello scarto che l’artista intravede una forma di bello estetico in grado di contrapporsi, ma al tempo stesso entrarne a fare parte, alle definizioni culturali ufficiali e di imporsi in esse grazie alla forza, all’espressività e all’impatto emotivo che sull’osservatore può avere ogni oggetto legato al concetto di scarto stesso.
L’artista ha messo a punto, nel tempo, una prassi artistica in grado di porre sullo stesso piano di azione creatività e rispetto per l’ambiente, estro e senso civico. Il riutilizzo e la trasformazione di oggetti di scarto in opere da esporre non vuol essere un totale rifiuto della bellezza; al contrario tali dinamiche ricercano una nuova bellezza, più consona alla nostra condizione attuale di essere umani. Una bellezza che ha insita in sé il suo passato, il suo trascorso; una bellezza che non si fa concetto astratto, ma che si fa portatrice di un messaggio di speranza e resurrezione (se non per gli esseri umani, almeno per gli oggetti) e che si pone come linguaggio di denuncia di un sistema evolutivo che va cambiato, rifondando il rapporto dell’uomo contemporaneo con gli oggetti che produce, non più in funzione della loro necessità, ma per essere usati, gettati o sostituiti. I riferimenti storico-artistici del percorso di Masecchia sono molteplici, anche se ad un primo, e forse superficiale, sguardo l’accostamento più ovvio è quello con la pop art americana di Andy Warhol. Ritengo, tuttavia, che le radici della sua ricerca siano da rintracciare nel surrealismo, nel ready-madeduchampiano e nella pop art inglese. Andiamo con ordine. Tra il 1928 e il 1929 René Magritte dipinge il suo celeberrimo La trahisondesimmages: sulla superfice della tela rappresenta una pipa con una sorta di didascalia che recitaCeci n’est pas un pipe. L’oggetto pipa, defunzionalizzato del suo scopo primario, quello di essere fumato, smette di essere pipa e diventa semplicemente una sua rappresentazione.
I tappi di Masecchia si muovono su un simile piano ontologico, perdendo del tutto la loro funzione e trasformandosi in punti di colore diventano una parte di un tutto più ampio (l’oggetto quadro). Partendo da questa lettura puntillistica della superficie si può fare un ulteriore passo indietro nella storia dell’arte sino ad arrivare ai movimenti post-impressionisti e al pointillisme di Seurat e Signac le cui immagini, realizzate a partire da un fitto accostamento di punti di colore, si concretizzavano a livello visivo solo nella retina dello spettatore. Qualcosa di simile accade anche nelle opere di Masecchia nelle quali i diversi colori dei tappi, sapientemente scelti ed accostati, prendono forma oggettuale a livello ottico con una piena partecipazione e un, forse inconscio, coinvolgimento di chi di esse fruisce. Allo stesso tempo e ancora una volta con uno spirito affine a quello surrealistico, il tappo è una sorta di ready-madeduchampiano: un qualcosa di esistente indipendentemente dalla volontà dell’artista, ma che l’artista erge ad altro da sé, ad oggetto artistico che dell’oggetto di partenza ne modifica significato e significante. Infine, piuttosto che alla pop art americana, le ragioni etiche e sociali sottostanti la ricerca di Luigi Masecchia sembrano essere più affini all’omonima corrente inglese (che di quella americana fu, come noto, precorritrice) il cui punto di forza era proprio la sua capacità di farsi denuncia sociale attraverso l’utilizzo dei topos dall’immaginario collettivo ad essa contemporaneo. Gli stessi topos, declinati ovviamente al ventunesimo secolo, si ritrovano anche nei lavori di Masecchia. Tuttavia, gli omaggi resi ad Andy Warhol sono più di uno nella produzione dell’artista napoletano: dalla zuppa Campbell’s a Marylin Monroe dipinta come a voler simulare la tecnica serigrafica (tratto distintivo dell’artista americano); dal Vesuvio alla Coca Cola; dai RollingStones alla serie dedicata a personaggi dello star system internazionale (ancora Marylin Monroe, Che Guevara, Jimi Hendrix, Bruce Lee, Frida Khalo, Jim Morrison, la regina Elisabetta, David Linch e numerosi altri), nazionale (Gianni Agnelli, Enzo Ferrari, Silvio Berlusconi etc.) e a testimoni del genius loci della sua città natale (il Vesuvio, Totò, Sophia Loren, Diego Armando Maradona).
Tuttavia nel lavoro di Masecchia, se accostato alla pop art americana, si avverte un forte cortocircuito semantico dal momento che, se come in Warhol, i luoghi comuni dello star system e della società dei consumi non sono né pienamente approvati, né del tutto rifiutati, ma in qualche modo esasperati sino al parossismo, è anche vero che la prassi lavorativa che porta alla realizzazione di tali opere (la lavorazione dei tappi) è tutta rivolta verso una forte denuncia sociale e sostenuta da un profondo senso etico e morale. Inoltre, se la pop art americana si muove, in anticipo sui tempi, nel territorio postmoderno del recupero e del riciclo “di immagini provenienti dallo spazio della città, megalopoli sconfinata” brulicante di stimoli e merci, Masecchia crea le stesse immagini partendo proprio dal recupero di quelli che sono gli scarti della stessa società iperconsumistica e capitalista raccontata da Warhol e compagni: il mondo pop idealizzato negli anni Sessanta e Settanta, diventa ora realtà con tutto il suo bagaglio di errori e criticità. In tal modo, riprendendo Baudillard, “l’oggetto cessa di essere banale e diventa significante: la verità dell’oggetto contemporaneo non è più di servire a qualcosa, ma di significare, non è più essere manipolato come strumento, bensì come segno”.
L’oggetto tappo, pensato come strumento di chiusura ermetica, diventa in Masecchia dispositivo di apertura mentale e sensibilizzazione al bello, un bello che si caratterizza non solo sul piano estetico, ma anche, e forse soprattutto, su un piano etico: opere, le sue, che ostentano materiali di recupero imponendo allo spettatore una riflessione sulle ragioni sottostanti tale scelta. In fondo se è vero che c’è ancora molto da fare sulla questione rifiuti e pur vero che molto si può fare partendo proprio dai rifiuti. Del resto, come ha sostenuto Robert Rauschenberg già nel 1959, “un paio di calzini non sono meno adatti a fare un dipinto, di legno, chiodi, trementina, olio e stoffa” .